21/02/20

Recensione de L'interprete di Annette Hess


Trama: Francoforte, 1963. Durante il processo che vede Fritz Bauer indagare sulle responsabilità di alcuni membri del personale del campo di concentramento di Auschwitz, Eva Bruhns viene assunta come interprete dal polacco degli interrogatori dei testimoni. I suoi genitori, proprietari del ristorante Deutsches Haus, si mostrano decisamente contrari alla carriera scelta dalla figlia, così come lo stesso fidanzato di Eva, Jurgen, ancorato alla convinzione che una donna non debba lavorare se il futuro marito si può permettere di mantenerla. Ma la giovane, vinta dalla curiosità e dalla passione, accetta comunque il lavoro. Eva è figlia di un omertoso dopoguerra, di un boom economico in cui si è disperatamente tentato di seppellire il passato. Ascoltando le scioccanti testimonianze dei processi, però, il suo pensiero corre continuamente ai genitori e ai motivi per cui nella sua famiglia non si parla mai della guerra e di ciò che accadde. Perché sono tutti così restii ad affrontare l’argomento? Lentamente Eva si rende conto che non solo i colpevoli sono stati colpevoli, ma anche coloro che hanno collaborato, in silenzio, rendendo possibile l’inferno dei campi di concentramento. E che tra quelli che non hanno mai alzato la voce per protestare, rendendosi complici, potrebbero esserci persone a lei molto vicine. 


Prima di iniziare questo romanzo ero piena sia di dubbio che di aspettativa.


Infatti, avessi avuto la possibilità, il mio mestiere dei sogni sarebbe stato l’interprete, comunque l’ambito della mediazione culturale. Quindi la curiosità di leggere di un’interprete (dal polacco, poi! Non lo parlo, ma mio padre viene da Danzica) è sempre stata alta. L’ambito poi è particolare perché le vicende hanno luogo nel 1963 a Francoforte in occasione dei primi processi ai tedeschi dopo il secondo conflitto mondiale. Eva, interprete dal polacco, viene chiamata a svolgere il suo lavoro poco prima dell’apertura delle udienze per tutta la loro durata poiché l’interprete effettivo è bloccato (c’è ancora il muro di Berlino con tutto ciò che comporta). E’ inizialmente estraniante perché la giovane donna non conosce la storia recente e teme di aver capito male quel che ascolta, rimane stordita quando inizia a comprendere.
La sua famiglia ed il suo fidanzato non concordano con la sua decisione di accettare questo lavoro, ma Eva vuole vederci chiaro e dare voce a chi ha subito ingiustizie. Quel che appare evidente al lettore moderno è che, semplicemente, non vogliono vedere ciò che accadde. Certo, non si poteva fare nulla, gli oppositori del nazionalsocialismo venivano schiacciati, ma dover guardare in faccia una pagina negativa di cui si è stati colpevoli, direttamente o meno, non è piacevole e la realtà si nega. Il fidanzato, Jurgen, invece, mi dà altamente sui nervi: conservatore, bigotto, maschilista. E’ proprio vero che l’amore è cieco!

Certo, è l’ennesimo romanzo sul tema, ma è interessante leggere dei primi processi dopo il conflitto. E’ una prospettiva delle vicende poco approfondite, così come la storia vista da parte dei tedeschi (come nei romanzi di Carmen Korn) e le loro reazioni. E’ vergognoso come i colpevoli cerchino di scagionarsi, dicendo che non sanno, non ricordano, non c’erano, non erano loro, che i polacchi/i testimoni mentono o ricordano male.
La storia non dev’essere mai dimenticata e questo romanzo affronta con perizia e documentazione il periodo in cui si inizia a far luce nel dopo guerra, pur attraverso una storia romanzata. Le notizie che si sentono in giro ci fanno capire che di storia si parla sempre troppo poco e non la si capisce, non la si applica.
Riguardo al romanzo vero e proprio ha un ritmo lento e capitoli lunghi, intervallati da numerosi paragrafi. Difficile che sia adatto a chi cerca storie più adrenaliniche o con una struttura più snella e meno carica. Io l’ho trovato comunque utile e capace di aprire la mente.


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