21/03/19

Recensione di L'avversario di Emmanuel Carrère

Trama: «Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L'inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient'altro. Da diciott'anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all'ergastolo. «Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell'uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un'autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un'esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi». Emmanuel Carrère 

Che dire se non che ho i BRIVIDI?
Quando ho iniziato a leggere ho pensato ad un racconto realistico, ma al secondo capitolo ho dovuto rileggere più volte perché il registro cambia di parecchio e c'è un cambio a livello narrativo.
Se prima parla Luc, poi è la voce di Carrère a parlare e, a fine lettura, è chiaro perché.


Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand uccide moglie, figli e genitori, inscenando un incendio a casa sua e cercando di suicidarsi, senza successo. Quello che viene fuori durante le indagini è agghiacciante: quest'uomo ha mentito per diciassette anni a chiunque ed a nessuno è venuto in mente di verificare niente, neanche le cose più strane. Pensandoci è assurdo perché, a scavare anche poco, tante cose non tornvano.
Per l'opinione che me ne sono fatta, una vita con genitori troppo virtuosi  e semplici, ma limitanti soprattutto a livello mentale (il male fisico è accettato, il resto è fuffa), ha creato il terreno ad una mente fragile che, per non ammettere un grande ma riparabile insuccesso, è presto caduta in un tranello che ha piegato la sua mente fino alle fatali conseguenze perché il castello di carta iniziava a traballare e stava per crollare rovinosamente. Occorreva mettere a posto le cose.

Il romanzo- la ricostruzione comincia con Luc come POV, ma Carrère non riusciva a scrivere così ed è subentrato come voce narrante, spiegandoci che il desiderio di verità lo ha spinto a scrivere a Romand. Quindi il suo libro è il prodotto della vicenda per come è riuscito a ricostruirla e per quel che gli ha detto l'omicida che, secondo me, non ha perso per magia l'abitudine a mentire, ormai radicata.

La lettura non è impossibile né difficoltosa, ma procede a rilento. Non mi conquista questo modo di scrivere dell'autore. Da una parte immagina troppo, dall'altra trovo tutto troppo schematico e cronologico, salvo alcuni salti nel tempo molto rigorosi. E' però durissima leggere del momento in cui si ricostruisce l'azione omicida ed il dolore che devono aver provato, sotto tutti i punti di vista, i suoi cari è devastante.
Spinge a chiedersi se siamo tutti onesti e se siamo nel giusto. Quanto ci mentiamo, spesso, per tutelare la nostra tranquillità mentale? Romand era certamente malato, ma siamo sicuri di essere normali? Come possiamo tutelarci? E' praticamente certo che non diventeremo dei killer, però non si può mai dire mai e ritenersi al sicuro dalle malattie mentali che certo non avvisano né scelgono con criteri precisi le vittime.

Non so se mi sia piaciuto, ma è certo che mi abbia inquietato. E' un libro disturbante, vero, che suscita riflessioni ed emozioni anche se come scheletro e scrittura può non piacere troppo.

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