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26/08/18

Recensione di Non dite che non abbiamo niente di Madeleine Thien

Trama: Marie è nata in Cina ma è cresciuta con la madre in Canada. Il padre le ha abbandonate due volte: la prima quando se n’è andato di casa, la seconda quando si è ucciso gettandosi dal nono piano di un grattacielo a Hong Kong. Siamo all’inizio degli anni Novanta, e i fatti della lontana Cina irrompono nella vita di Marie e della madre quando Ai-ming, fuggita dopo il massacro di piazza Tienanmen, bussa alla loro porta. È con il suo aiuto che Marie inizia a ricostruire la storia di suo padre, una storia ricca di idealismo rivoluzionario, di musica e di silenzio, in cui tre musicisti del Conservatorio di Shanghai - il timido e talentuoso compositore Sparrow, il prodigio del violino Zhuli e l’enigmatico pianista Kai – combattono nella Cina dell’implacabile Rivoluzione culturale per rimanere fedeli l’un l’altro e alla musica verso cui hanno consacrato la propria vita. Dalle affollate sale da tè nei primi giorni della Rivoluzione fino agli eventi che portarono alle manifestazioni del 1989 a Pechino, seguendo le vicende di un misterioso taccuino passato di mano in mano durante gli anni di Mao, Madeleine Thien compone un affresco dolente e meraviglioso di un paese in continua trasformazione, e una riflessione di vasta portata sul ruolo della politica e dell’arte nella società.

La copertina che ricorda una carta da parati ricercata, ma non certo rilassante mi ha attirato. Poi il titolo, circoscritto in una targhetta come marginale, mi ha chiamato. Capire poi che questo romanzo parla di Cina, comunismo e società cinese è stato il colpo finale.

Si capisce subito che sarà una lettura particolare.
Si apre la storia con Marie, bambina cinese, cresciuta in Canada, che vede la propria vita subire scossoni prima con la fuga del padre, Jiang Kai, ad Hong Kong, seguita dal suo suicidio e poi dall'arrivo a casa sua di Ai-Ming, ragazza incomprensibilmente legata alla storia di suo padre, direttamente da una Cina messa sottosopra dal post Tian'anmen. E' la fine del 1990.
La narrazione, delicata e fine, ci trasporta, tramite i ricordi di Ai-Ming e le storie a lei raccontate, in un passato tutto sommato recente. All'affermarsi del comunismo, che si prospettava come la fine di tutti i mali, e del Partito che voleva solo il bene del suo Popolo. Tutto porta alle vicende della nonna Gran Madre Coltello e del nonno Bà Lùte, a quelle di suo  padre Passero, della mai conosciuta cugina Zhuli  ed ovviamente di Jiang Kai, il padre di Marie.
Ci vuole parecchio per raccapezzarsi e per capire bene di chi si parla, cosa succede, quando, ma la storia non permette di correre. Pretende di essere gustata, capita, vissuta. Non offre risposte, ma fatti e riflessioni.

Il periodo storico su cui ci si concentra è duro e difficile. C'è un forte stridore tra gli anni '50 e l'89. 
Agli inizi del regime di stampo sovietico si assiste alla Riforma Agraria con l'espropriazione dei latifondisti, ai campi di rieducazione ed alle relative accuse infondate che sono la causa della rieducazione e del ricollocamento di molti cittadini. La dirigenza appoggia le autocritiche e le denunce di elementi controrivoluzionari. Molto cittadini si macchiano di crudeltà in nome del comunismo. Si raggiunge il culmine con la Riforma Culturale, uccisione di ogni speranza ed apertura all'occidente. Questi cambiamenti sono vissuti come necessari, giusti perché il popolo va guidato dal Partito. Il governo non sbaglia mai e tutto è corretto.
Ma i giovani nati dopo questi fatti insorgeranno pacificamente e verranno repressi col sangue. Non capiscono perché non possono scegliere nulla né avere desideri, anche gli adulti si svegliano dal torpore, si schierano coi giovani che hanno ragione. Non sanno nulla, ma proprio per questo sono più obiettivi e chi è nato prima di loro si chiede come possano aver subito passivamente.

La storia del '900 di questo paese strazia il cuore. Passero sarà un elemento importantissimo di questo romanzo. La sua confusione nel 1989 intenerisce e fa soffrire. Lui ha sempre accettato tutto, chinato la testa, preso ogni avvenimento come  naturale. Ma per lui inizia il travaglio, desideri che credeva estinti si risvegliano. La libertà come idea lo disorienta e lo addolora. Non la riconosce, crede di essere già stato libero e di aver scelto, quando in realtà ha sempre chinato la testa alle decisioni del potere. E credo fosse accaduto a molti connazionali, devastati psicologicamente, che lo sapessero o meno, da un regime che li ha stuprati intellettualmente, oppressi come persone. Guai ad alzare la cresta perché le conseguenze si riverberavano su tutta la famiglia, non solo su di sé.
Questa popolazione è stata devastata nell'intimo, nel privato, a tutti i livelli con la scusa del socialismo.  E prima o poi la cattiva sorte toccava a tutti, anche a chi era in alto.
Alcuni commenti ed articoli di giornale mi fanno pensare che le cose sembrano diverse, se non altro per facciata, ma che sotto sotto forti influenze siano rimaste.

Queste molte righe sembrano trasportare in un sogno, sono oniriche e sembra di assistere alle vicende dall'alto. Il libro è denso, realistico, duro, ma il modo di scrivere rende i fatti poetici, quasi delle gesta epiche che ci vengono narrate come una sorta di poema moderno.

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